«Io non sono una persona come voi, cerco di esserlo ma non potrò mai esserlo. Sono diverso da voi». Così, con queste poche parole, Sami Modiano ha riassunto la sua condizione esistenziale di sopravvissuto alla Shoah alla platea gremita di ragazzi delle superiori e della seconda e terza secondaria di primo grado che, con gli insegnanti, lo ascoltavano nel silenzio più assoluto, commossi dalla forza del suo racconto.
L’invito a parlare con gli studenti
Di passaggio a Milano per l’inaugurazione della mostra del CDEC Ebrei di Rodi. Eclissi di una Comunità 1944-2024, Sami Modiano è stato invitato a Scuola su iniziativa dell’Assessore alle Scuole Dalia Gubbay, che ha fortemente voluto questo incontro con gli studenti. Lui si è reso immediatamente disponibile e il 10 maggio, accompagnato dalla moglie, era sul palco dell’Aula Magna, presentato dal preside Marco Camerini e da Rav Arbib.
L’infanzia felice e poi l’espulsione dalla scuola
«Qualcuno di voi forse mi conosce» ha esordito Modiano, che oggi ha 94 anni. «Sono uno dei pochissimi sopravvissuti del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau». Ha cominciato il suo racconto descrivendo la propria infanzia a Rodi, dove è nato, che allora era possedimento italiano. «Avevo una famiglia adorabile: papà Giacobbe, mamma Diana e mia sorella Lucia, di tre anni più grande di me. E poi, oltre ai zii e cugini, avevo una grande famiglia che era la piccola comunità ebraica di Rodi, con cinque sinagoghe e un collegio rabbinico, molto unita e solidale». Coccolato dai genitori, benvoluto da tutti, il piccolo Sami ha avuto un’infanzia felice fino all’inizio della terza elementare, quando è stato espulso dalla scuola statale. «Nella mia classe c’erano bambini cattolici, greci ortodossi e musulmani. Poi c’ero io, l’unico ebreo. Quando il mio insegnante, che mi voleva molto bene, mi ha chiamato per dirmi che ero stato espulso dalla scuola, sono scoppiato in un pianto terribile. Vedo ancora il suo disagio, sento ancora la sua carezza e le sue parole: “Non piangere Sami, non hai fatto niente di male, vai a casa, tuo padre ti spiegherà”. Mio padre ha cercato di tranquillizzarmi e di farmi capire – cosa potevo capire a quell’età? – che ero diverso dai miei compagni di classe. L’espulsione dalla scuola è stata per me la prima grande tragedia, perché dopo non ho più studiato, mi sono fermato alla terza elementare e non ho una cultura, non ho potuto averla».
La differenza di un numero
Sami Modiano a questo punto si ferma, sopraffatto dall’emozione. Chiede ai ragazzi di fargli qualche domanda, dice che farà del suo meglio per rispondere. Una ragazza gli chiede del numero tatuato sul braccio, lui lo mostra e riprende a parlare. «Il mio numero è B7456, il tatuaggio mi è stato fatto a Birkenau. Io e il mio adorabile papà, che ho conosciuto poco, ci siamo messi in fila. Lui mi precedeva, e ha avuto il numero B7455. Io avevo 14 anni, lui 45 (la comunità ebraica di Rodi è stata deportata nell’agosto 1944, ndr). Un solo numero di differenza fra Sami e papà Giacobbe, ma una differenza enorme: B7455 è stato cancellato subito, mentre B7456 è davanti a voi oggi. Anche io dovevo essere uno di loro, come è stata mia sorella Lucia, una bellissima ragazza, molto intelligente. Ecco, vedete, da questa piccola domanda ho spiegato quello che potevo, perché la barbarie di quella gente non si può spiegare».
L’amatissima sorella Lucia
In Aula Magna ragazzi e insegnanti, molto colpiti, aspettano che Modiano riprenda a parlare, e lui torna a raccontare della sua famiglia, della mamma mancata per malattia cardiaca quando lui aveva dieci anni, del papà meraviglioso che ha fatto tutto il possibile per colmare quella mancanza e soprattutto della sorella Lucia, che da quel momento è stata per lui anche una mamma. «Il poco cibo che papà portava a casa in tempo di guerra Lucia lo divideva in tre porzioni uguali. Io mangiavo subito tutto perché avevo una fame terribile e lei mi chiedeva “Ti sei saziato?” Io rispondevo sì, ma lei non finiva la sua porzione e mi diceva “Non ho più fame, mangiala tu”. Questi gesti di fratellanza non si cancellano», dice Modiano visibilmente commosso, «sono gesti che rimangono per tutta la vita».
L’arrivo a Birkenau
Quando la famiglia Modiano arriva a Birkenau, sulla rampa della morte, «I signori nazisti delle SS», ha raccontato Modiano, hanno diviso uomini e donne. Suo padre si è rifiutato di lasciare andare la figlia e le SS lo hanno massacrato di botte. «Io ero presente, e mi è rimasta impressa l’espressione del viso di papà. Non avrei mai immaginato che potesse soffrire così tanto. Non si è lamentato, parlava con gli occhi e ho visto che era già un uomo distrutto» ha raccontato con le lacrime agli occhi. «Dopo meno di un mese avevo capito che per noi non c’era speranza di sopravvivere e ho deciso di cercare mia sorella dall’altra parte del filo spinato, per vederla un’ultima volta. Dopo qualche tentativo finalmente ho visto dal campo delle donne una mano che mi salutava. Mia sorella era bellissima, con i capelli lunghi, la persona che mi salutava era rasata a zero, magrissima, con un pigiama a righe. Non poteva essere lei. Ho preso coraggio, mi sono avvicinato al filo spinato e l’ho riconosciuta. Ci sono stati gesti di allegria, di gioia, di dolore, parole che non si possono descrivere e un abbraccio da lontano. Il giorno dopo decisi di non consumare la mia fetta di pane, l’unica cosa che ci davano da mangiare inseme a un litro di brodaglia, per darla a lei. Con grande amore l’ho avvolta in un panno e gliel’ho gettata attraverso il filo spinato. Lei mi ha ringraziato con un abbraccio e mi ha rilanciato il panno: c’era ancora la mia fetta di pane e anche la sua. Vedete ragazzi, queste sono cose che non si possono dimenticare».
Il dolore della sopravvivenza
I ragazzi e gli insegnanti sono commossi di fronte al racconto ma anche al dolore ancora così vivo di Sami Modiano. «Vi ho raccontato soltanto piccoli episodi di un ragazzo, ma ce ne sono stati molti altri che non sono sopravvissuti. Dobbiamo ricordarlo. Io ho una missione e per questo ho accettato di venire qui da voi oggi. Perché voi siete la speranza per il futuro. Sapete cosa succede quando si esce vivi da quell’inferno? Ci si chiede ogni giorno perché. Perché non sono morto anch’io insieme a tutti gli altri? Sono un privilegiato? Perché li ho lasciati? È un dolore insopportabile. Dopo molti anni ho capito che siamo stati scelti: io, Piero Terracina, Shlomo Venezia, Primo Levi, le sorelle Bucci e altri per dare qualcosa a voi. È questo lo stimolo che mi fa andare avanti».
L’abbraccio e l’esortazione ai ragazzi
Sami Modiano si alza quindi dal podio e chiama a sé un ragazzo seduto nelle prime file. Gli chiede come si chiama, se ha fratelli. È un ragazzo di quarta superiore, che da poco è tornato dalla Polonia, e Modiano gli chiede cosa ha visto ad Auschwitz, se ha visto le baracche, le camere a gas, il filo spinato. Poi lo abbraccia. Un abbraccio caldo, amorevole, commovente. «Questo abbraccio è per tutti voi» dice. Va quindi da una ragazza, le chiede il nome, le materie preferite, qualcosa sulla famiglia. E poi le dice: «Allora, hai capito quello che abbiamo subìto? Molti ragazzini come te sono stati eliminati. Non dimenticartelo questo. Devi trasmetterlo anche ai tuoi figli, che questo non si dimentichi. Voi siete i figli della speranza, un domani sarete voi a fare in modo che questo non succeda più».
La risposta all’interrogativo “perché sono sopravvissuto?”
I ragazzi fanno molte domande e Modiano, ormai seduto in mezzo a loro, racconta. La morte di sua sorella e poi quella di suo papà, che distrutto dal dolore, è andato “volontariamente” all’ambulatorio da cui fu portato nelle camere a gas. L’orrore quotidiano nel campo. Il dolore, la fatica, la fame, la crudeltà dei nazisti. Il lavoro con Piero Terracina a raccogliere cadaveri nel campo. La camera a gas scampata quando era già in fila perché in quel momento era arrivato un carico di patate ed era stato chiamato a scaricarlo. La marcia della morte quando, debilitato dai suoi 26 chili di peso, è caduto. «Aspettavo il colpo di grazia delle SS, ma due prigionieri mi hanno sollevato e trascinato fino ad Auschwitz, lasciandomi ormai incosciente su una pila di cadaveri per mimetizzarmi». Il risveglio a campo vuoto, e poi l’arrivo dei russi. «Io volevo morire, e per 60 anni mi sono chiesto perché sono rimasto in vita. Quando nel 2005 ho fatto il mio primo viaggio ad Auschwitz-Birkenau, suggerito da Piero Terracina e dalla Comunità Ebraica, ho avuto risposta agli interrogativi che mi hanno tormentato tutta la vita. La risposta è che io dovevo dare qualcosa a voi per ricordare tutti i morti. E lì, nel 2005, ho giurato che non li avrei mai dimenticati».