Qualche anno fa un gruppo di magistrati italiani ha voluto ricordare i 28 colleghi assassinati fra il 1960 e il 2015 dedicando loro, tramite il KKL Italia, una foresta di alberi e una stele commemorativa a Tzorà, in Israele. Il KKL Italia è sensibile alla battaglia per la legalità, anche attraverso l’educazione dei giovani alla conoscenza dei fatti e alla conservazione della memoria. I magistrati hanno riconosciuto dunque una comunanza fra il loro desiderio di ricordare i colleghi e il significato profondo che la memoria ha per il popolo ebraico. È da queste premesse che si è concretizzato l’invito che il KKL Italia ha rivolto a quattro di questi magistrati affinché incontrassero i nostri studenti per approfondire con loro i temi del terrorismo, della criminalità organizzata e del ruolo della magistratura.
I protagonisti della giornata
L’incontro si è svolto l’11 marzo nell’Aula Magna della Scuola, presentato dal presidente del KKL Italia Sergio Castelbolognesi. Vi hanno partecipato Eugenio Fusco, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Marco Bignami, presidente della terza sezione del Tar Lombardia, Marcello Maddalena, già procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Torino e Stefano Amore, magistrato addetto della Corte Costituzionale e curatore del volume Ritratti del coraggio. Lo Stato italiano e i suoi magistrati. Il libro, distribuito in precedenza a tutti gli studenti, è stato il punto di partenza della conversazione e delle domande degli studenti.
Ricordare il passato per costruire il futuro
«Il popolo ebraico ha la buona (o cattiva) abitudine di ricordare» ha esordito Sergio Castelbolognesi. «Rav Arbib mi disse una volta che siamo l’unico popolo che ricorda ancora cosa mangiò cinquemila anni fa quando uscì dall’Egitto. Il dottor Amore ha pensato quindi al mondo ebraico come il contesto giusto per ricordare i 28 colleghi uccisi dalla mafia e dal terrorismo, una tragedia che solo in Italia è accaduta in queste proporzioni». Ha preso quindi la parola Stefano Amore: «Il volume che sono onorato abbiate letto», ha detto rivolgendosi agli studenti, «è dedicato ai magistrati assassinati, molti dei quali non sono ricordati perché “dispersi” nelle molte tragedie del nostro paese. La memoria è forse la maggiore peculiarità della comunità ebraica nel mondo, un rapporto produttivo con il passato affinché questo possa costruire il futuro. L’elemento che condividiamo è questo, perché noi non ci siamo fermati all’encomio dei nostri colleghi: il libro è stato un’occasione di riflessione, un monito per costruire un diverso futuro per il paese, per la magistratura e per la giustizia. In questo credo che l’atteggiamento sia simile: il nostro passato è la radice del futuro e di un percorso comune».
Trovare i dimenticati e ricostruire la verità dei fatti
«Abbiamo voluto scrivere questo libro perché tutte le narrazioni esistenti sulla magistratura consideravano solo i nomi più noti: degli altri, pure importanti, non si sapeva nulla» prosegue Amore. «Avevamo scoperto, per esempio, che nell’elenco ufficiale dei magistrati uccisi tenuto dall’Associazione Nazionale Magistrati c’erano 27 nomi, non 28. Dopo un lavoro di ricerca, abbiamo appurato che un magistrato ucciso il 26 gennaio del 1960, Antonino Giannola, presidente del Tribunale di Nicosia in Sicilia, non era nell’elenco. Se ne era persa la memoria anche nell’ambito della nostra categoria. Il suo nome fu inserito nell’elenco nel 2018, dopo 58 anni dalla morte. Questo vi dà l’idea dell’importanza di raccontare, ma anche di capire, scavando nel passato per trovare i dimenticati. Anche il popolo ebraico ha tante vittime dimenticate perché non si è riuscito a capire come, dove e quando siano scomparse. È un ulteriore tema che vi accomuna ai magistrati, perché il magistrato cerca di comprendere e, nei limiti delle sue possibilità, di ricostruire la verità dei fatti.
La domanda: perché si conoscono solo Falcone e Borsellino?
Alla domanda dei ragazzi sul perché i giovani conoscono solo i nomi di Falcone e Borsellino, risponde Marcello Maddalena: «È vero. Il nome di Bruno Caccia, procuratore della Repubblica a Torino e mio capo di allora, era il simbolo dei processi alle Brigate Rosse. È stato assassinato il 26 giugno 1983, ma pochi sanno il suo nome. Semplicemente i nomi di Falcone e Borsellino si ricordano perché collegati al primo grande processo a Cosa Nostra. Falcone è stato il magistrato che per primo è riuscito a far parlare un importante esponente della cosca, Tommaso Buscetta. E vi spiego quale è stato il lavoro, anche solo materiale, di Falcone in quel processo. Era così importante acquisire le dichiarazioni di Buscetta che Falcone è sempre andato incontro ai suoi capricci. Per esempio, a Buscetta dava fastidio il ticchettio della macchina per scrivere. Quindi Falcone ha raccolto le sue dichiarazioni – centinaia se non migliaia di pagine – scrivendole di suo pugno con la penna stilografica. Era il senso del dovere e dello Stato: per lo Stato era importantissimo raccogliere le dichiarazioni di Buscetta e quindi bisognava ottenerle anche a costo di fatiche del genere.
La domanda: il senso del dovere dei magistrati è cambiato?
I ragazzi hanno poi chiesto ai magistrati se secondo loro questo senso del dovere, dello Stato e del sacrificio personale sia ancora presente nella magistratura di oggi. «Sicuramente la dimensione del dovere oggi è meno avvertita» ha risposto Stefano Amore. «Le scelte dei magistrati sono individuali, non imposte. Il senso del dovere non deriva da una lettura formale dalla legge, ma è qualcosa che viene accompagnato dall’intelligenza e dal sentimento di ognuno. Questi colleghi non erano automi, ma comprendevano la prospettiva del dovere, cioè la giustizia, un mondo migliore. Il dovere deve essere riempito di valori ed è sempre portato sulle spalle del singolo». Interviene Eugenio Fusco: «Sì, qualcosa è cambiato» afferma. «Prima l’idealità era forte, era forte l’esempio, era forte anche il desiderio di fare qualcosa di importante, di lottare contro la mafia o di misurarsi con altri gravi fenomeni. Noi oggi viviamo anche del loro esempio: il libro sui magistrati uccisi nell’esercizio delle loro funzioni è intitolato non a caso Ritratti del coraggio. Credo che la parola chiave sia coraggio, inteso non come eroismo ma come capacità di non essere indifferenti e voltarsi dall’altra parte. Se assistiamo all’investimento di una persona, ciascuno di noi dovrebbe intervenire, soccorrere ma anche capire cosa è successo per poter poi fornire elementi a chi deve svolgere l’indagine. Il coraggio è in ciascuno di noi, così come il senso del dovere e il senso dello Stato».
Una magistratura forte tutela le minoranze
Ritorna sul tema della comunanza fra comunità ebraica e magistratura Marco Bignami, che risponde così alla domanda: «Voi vi dovete guardare perché l’antisemitismo è una serpe che striscia sempre e rialza improvvisamente la testa nella nostra società; noi perché la magistratura da 40 anni è oggetto di attacchi virulenti, specie da parte della politica, e vive un periodo di grave delegittimazione. Un magistrato delegitimato è sfiduciato e quindi difficilmente darà la vita per lo Stato. I magistrati sono uomini, non eroi, ma se si opera in un contesto di delegitimazione molti si tireranno indietro. Voi giovani dovete evitare che ciò accada informandovi, maturando un giudizio critico e ricordandovi del ruolo fondamentale che la magistratura di questo paese ha svolto nel rafforzamento dello stato di diritto. La nostra è stata una magistratura che ha avuto un peso più incisivo rispetto a quella francese o spagnola, per esempio. Le leggi della Costituzione sono applicate dagli uomini, e soltanto magistrati forti, indipendenti, imparziali, con il senso del proprio dovere sapranno tutelare i diritti di tutti e le minoranze, se necessario. Con una magistratura forte, potete essere certi che gli orrori del passato non torneranno a verificarsi, perché i magistrati vi garantiranno che ciò non accadrà.
La domanda: cosa si aspettano i magistrati dai giovani?
L’ultima domanda che arriva dalla platea degli studenti è cosa si aspettano i magistrati dai giovani per combattere la mafia o per sollevare l’argomento, visto che non se ne parla più come un tempo. «Prima i giovani erano più attivi nella vita politica, o comunque cercavano molto più di combattere il fenomeno e di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dello Stato» risponde Bignami. «Oggi la politica ai giovani non interessa più, ed è grave, perché senza una visione del mondo si vive non da protagonisti ma da comparse. Già dal liceo è necessario formarsi una coscienza che orienta davanti ai grandi temi della politica e ai grandi dilemmi etici e lo si può fare soltanto leggendo e studiando. Viviamo in un’epoca di grande riflusso, ma ciascuno di noi nel proprio piccolo può cercare di impegnarsi ad accrescere la propria consapevolezza» conclude Bignami. Alla domanda risponde anche Eugenio Fusco: «È vero che in televisione e sui social i temi della mafia, della legalità, della corruzione non esistono quasi più. Per i ragazzi è perciò abbastanza difficile impegnarsi politicamente quando c’è una dimensione generale di disattenzione. Credo si debba recuperare fortemente lo spirito critico, andare a scoprire da sé come stanno determinate cose, vedere se tutto effettivamente funziona come appare o se c’è dell’altro. Perché poi i problemi riemergono improvvisamente e in tutta la loro violenza e bisogna essere pronti ad affrontarli. Ciò che vi suggerisco è di approfondire i singoli problemi con discussioni dialettiche che non siano solo cori unanimi, ma anche contrapposizioni che possono fare emergere i problemi».