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David Zebuloni racconta agli studenti il suo 7 ottobre e la guerra mediatica a Israele

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«In Israele la prima domanda che ci si rivolge quando si incontra qualcuno è “dov’eri il 7 ottobre?” Perché il 7 ottobre è stato uno spartiacque: la storia di Israele di divide fra il prima e il dopo quella data». Così David Zebuloni, milanese che vive in Israele da dieci anni, già allievo della Scuola Ebraica di Milano e oggi giornalista che scrive per Libero e The Post Internazionale, ha dato inizio al suo intervento di fronte agli studenti delle superiori. Di passaggio a Milano, Zebuloni è stato invitato in aprile a parlare ai ragazzi della sua esperienza personale e di come Israele ha vissuto, e vive, il massacro di Hamas e la guerra che ne è conseguita.

7 ottobre: l’allarme e le prime notizie

«Tutti in Israele ricordano dov’erano sabato 7 ottobre. Io ero a Tel Aviv in visita a mio cugino: alle 6.30 del mattino le sirene sono risuonate in tutta la città, siamo scesi nei rifugi senza sapere cosa stava succedendo. Io sono shomer Shabbat, quindi non ho acceso tv o telefono e, al termine dell’allarme, sono ritornato a dormire. Più tardi mi sono avviato verso la spiaggia, notando che non c’era nessuno per strada e nemmeno in spiaggia, una situazione surreale a Tel Aviv, sempre piena di gente. Una volante della polizia mi ha informato dell’accaduto ordinandomi di tornare a casa, i terroristi erano ancora in azione. In quel momento risultavano 37 morti. Un’enormità, mi sono detto, una tragedia».

Numeri inconcepibili, i fratelli richiamati

«Una volta tornato a casa, mi sono fatto accendere la tv e ho trascorso la giornata davanti allo schermo» ha proseguito Zebuloni. «I 37 morti sono diventati rapidamente 100, 150, 200, poi si è cominciato a parlare di ostaggi: due, tre, dieci, molti di più. Il telegiornale trasmetteva in diretta le informazioni a mano a mano che arrivavano, così come le telefonate disperate dei genitori che cercavano i figli al Nova Festival. A sera si era arrivati a contare 700 morti, un numero inconcepibile. Solo più tardi ci saremmo resi conto della reale entità della tragedia. Ho chiamato casa per scoprire che i miei fratelli erano stati richiamati: uno al confine nord, dove ancora non era successo nulla, l’altro era nel primo battaglione che è entrato nel Nova Festival, scontrandosi con i terroristi e poi occupandosi dei cadaveri o di ciò che ne era rimasto».

La delegittimazione del dramma di Israele

Zebuloni ha raccontato di avere trascorso i primi tre giorni dopo il massacro completamente paralizzato prima di mettersi al computer e cominciare a scrivere sui social e per i giornali con cui collabora. «Inizialmente ho incontrato tanta solidarietà, poi hanno cominciato a chiedermi di raccontare le cose in maniera più equilibrata, poi la richiesta è diventata di raccontare ciò che stava succedendo a Gaza. Il dramma di Israele cominciava a essere sminuito e delegittimato».

La guerra mediatica che coinvolge tutti

Per stimolare i ragazzi a interagire con il suo racconto, Zebuloni ha quindi mostrato una serie di immagini che ritraevano l’attacco del 7 ottobre, i missili intercettati dall’Iron Dome, il leader di Hamas Sinwar, l’8 marzo in Italia, chiedendo agli studenti di titolare quelle immagini e poi mostrando loro i titoli reali pubblicati dalla stampa italiana. Ne è emersa una titolazione spesso fuorviante, che sottolineava l’aggressività a senso unico di Israele e ne ignorava le ragioni. «Il mio obiettivo» ha detto Zebuloni, è mostrarvi quanto questo conflitto, come tutti i conflitti, sia innanzitutto mediatico. C’è una guerra fisica che viene combattuta sul territorio e c’è una guerra mediatica che coinvolge tutti e che si combatte sui sui social, per strada, sul pianerottolo con i vicini di casa. Ognuno racconta la sua verità: io sono convinto che non esista una realtà sola e anche a me talvolta viene richiesto di fare un esercizio di empatia. Questo è giusto, ma quando questo esercizio di empatia va fuori controllo la guerra di narrativa diventa una guerra sporca nella quale il proprio dramma viene glorificato al punto da essere distorto».

L’odio di oggi non è diverso da quello di ieri

Zebuloni ha raccontato quindi di avere intervistato la scrittrice Lia Levi e una studiosa di Shoah professore emerito all’Università di Tel Aviv. «Lia Levi ha detto una cosa molto semplice: quando si parla di politica israeliana si camuffa il conflitto come una critica legittima alla leadership di Israele, ma in realtà vengono colpevolizzati anche gli ebrei della diaspora. Secondo la docente di Tel Aviv l’odio verso gli ebrei a cui stiamo assistendo non è diverso da quello di tanti anni fa: oggi lo chiamano antisionismo, ma è odio antisemita. Il confine fra Israele e le comunità ebraiche del mondo, ha detto, oggi quasi non esiste più: insultare un israeliano è come insultare un ebreo e viceversa. E, ha aggiunto, oggi sappiamo cosa può succederci quando quando tacciamo e ignoriamo il pericolo; non dobbiamo più tacere e dobbiamo dobbiamo denunciare ogni singolo atto di antisemitismo, anche se ci sembra minore».

Il conflitto mediatico si combatte con la conoscenza

In questa guerra di narrativa, Zebuloni ha esortato i ragazzi ha raccontare senza vergognarsi ciò che stanno vivendo come minoranza ebraica in un paese che non è in guerra. «Ma per raccontarsi non bastano le emozioni, il dramma o la paura, per quanto legittimi, perché da soli risultano inconsistenti. È necessario conoscere la storia e i fatti, per poter rispondere quando si viene accusati. Quando sentite che in Israele vige l’apartheid dovete porvi delle somande e sapere che i due milioni di arabi israeliani hanno il diritto di voto, sono primari di ospedale, giudici di tribunale, rettori di università. Questo è apartheid? Quando vi dicono che Israele non vuole la pace dovete sapere dei quattro trattati di pace che Israele era pronto a firmare, incluso quello del 2008 che avrebbe concesso ai palestinesi praticamente tutto ciò che volevano. Sapere è fondamentale per parlare del nostro dramma».

Il ricordo dell’amico Shaul Greenglick, il cantante ucciso in combattimento

Zebuloni conclude con una nota molto personale: era amico di Shaul Greenglick, il giovane israeliano che sognava di fare il cantante e che si è arruolato volontario cadendo a Gaza nelle prime settimane di guerra. «Shauli era un ragazzo di grande talento con una voce bellissima. Poco prima del 7 ottobre mi ha chiamato entusiasta per dirmi che era stato ammesso al programma Cochav haba, l’X Factor israeliano. Ha fatto il provino a guerra già iniziata: a mezzogiorno ha cantato e alle 5 del pomeriggio era già a Gaza, riservista volontario. Due settimane prima di morire, tornato a casa per un weekend con la famiglia, Shauli mi ha detto che voleva rinunciare al programma. Gli ho detto di non farlo, che erano anni che aspettava questo momento, che doveva realizzare il sogno di una vita. Mi ha risposto che non avevo capito niente, che questa non era una guerra come tutte le altre, era una guerra per salvare l’unica casa che abbiamo. Gli ho detto di uscire almeno per i provini e lui – che avrebbe potuto, perché era volontario – ha detto che non l’avrebbe fatto per rispetto verso i suoi compagni: chi aveva perso il nonno e non aveva potuto andare al funerale, chi aveva la mamma in ospedale e non poteva essere con lei… E poi una frase che non dimentico: “non è vero che non sto realizzando un sogno, sto semplicemente realizzando un sogno più antico, il sogno dei miei avi, sto salvando la mia terra”. E io sono convinto che combattesse per salvare non solo la sua terra, perché questo è un conflitto fra due mondi e due culture, fra il fondamentalismo e la democrazia».

Claralinda Miano

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