
Il viaggio delle quarte superiori nei luoghi della memoria si è svolto quest’anno l’ultima settimana di marzo. Gli studenti, una trentina, hanno visitato il campo di Auschwitz-Birkenau, il ghetto di Cracovia e la Varsavia ebraica, accompagnati dagli insegnanti Federica Crespi, Rav Joseph Sasson, Rav Yacov Simantov e dal responsabile della sicurezza Amit Rotem.
Il percorso inverso
Il viaggio è uno dei progetti di punta della Scuola, da sempre sostenuto dalla Fondazione Scuola per la sua grande rilevanza educativa e identitaria. Il programma, di quattro giorni, è serrato ed emotivamente molto intenso: i ragazzi vi hanno preso parte con serietà, dimostrando consapevolezza e maturità. «Abbiamo cominciato la visita ad Auschwitz dal campo II di Birkenau, per poi passare al museo nel campo I» racconta Rav Simantov, che nel corso di vent’anni ha accompagnato molti gruppi di studenti. Solitamente si fa il percorso inverso, ma Rav Simantov ci tiene a che i ragazzi vedano subito, prima di abituarsi e di stancarsi, le baracche, le camere a gas e le fosse comuni intorno. «Il campo I è più strutturato e più in ordine, il museo per quanto interessante è comunque un museo. La vera percezione dell’orrore si ha a Birkenau».


Silenziosi e concentrati
L’impatto all’ingresso è stato quindi molto forte. «Tutti hanno cambiato faccia. Camminavano in silenzio, a capo chino, ascoltando la guida. Non una parola. Erano molto colpiti, si vedeva che cercavano di capire, guardandosi intorno, cosa era successo lì. Mi ha dato in un certo senso molta soddisfazione vedere la serietà con cui hanno affrontato la visita, il loro coinvolgimento» dice Rav Simantov. Dopo quattro ore a Birkenau, il gruppo è arrivato al campo I e al museo. «I ragazzi erano stanchi perché la visita è faticosa, ma sempre molto attenti. Hanno cominciato a fare domande: prima un po’ incerti, si capiva che avevano paura di sbagliare a formularle, poi più sciolti».
Il rispetto per il luogo
La domanda più ricorrente era la più difficile: perché? «È una domanda a cui non c’è risposta, e ho quindi suggerito loro di concentrasi sul come, non sul perché. Li ho invitati a osservare e memorizzare tutto ciò che vedevano, perché non ci sarà per sempre». I ragazzi fotografavano per incamerare tutto. Nemmeno un selfie però, né una foto in posa. Hanno dimostrato massimo rispetto per il luogo.
Passato il peggio, le domande
Il programma è proseguito con la visita di Cracovia – il quartiere ebraico, il cimitero ebraico, la sinagoga del Remà, la Piazza degli Eroi – prima di proseguire per Varsavia, dove gli studenti hanno visto i resti del ghetto e visitato il museo Polin dedicato alla storia degli ebrei polacchi. «Anche in questa parte del viaggio sono stati molto concentrati; il peggio era passato quindi si sono rilassati un po’ e hanno fatto più domande, ma erano sempre coinvolti e attenti. Credo abbiano sfruttato molto bene l’opportunità che hanno avuto» riflette Rav Simantov, che ringrazia la Fondazione Scuola e i colleghi per l’ottimo lavoro di squadra.
Le voci dei ragazzi: Naike
«L’impatto della visita al campo è stato forte» racconta Naike della quarta tecnico. «Ho sempre saputo dei campi e di Auschwitz. La famiglia di mia nonna paterna è stata vittima della Shoah, quindi è un tema che mi è sempre stato a cuore e che ho sempre voluto approfondire da sola. Però non sapevo immaginarlo. Fino a che non l’ho visto con i miei occhi quasi non pensavo potesse essere reale. Ero scioccata. I musei sulla Shoah raccontano la storia, espongono reperti: la visita fa un altro effetto, perché ci si trova immersi in quell’ambiente».
Naike è stata colpita anche da Cracovia: «Si vede ancora che è una città che ha sofferto, non è rifatta come Varsavia. Vi si respira una specie di tristezza, come se la città avesse un magone dentro». Naike è convinta che la Scuola debba continuare a proporre questo viaggio agli studenti: «È un’esperienza da fare assolutamente, sia in quanto persone ma soprattutto in quanto ebrei. È una parte fondamentale della nostra storia e ci aiuta a capire chi siamo e quanto siamo fortunati oggi. È vero, c’è la guerra in Israele e tutto il mondo ci odia, però siamo liberi».
Le voci dei ragazzi: Daniel
«Ci sono stati luoghi che mi hanno toccato in modo particolare» racconta Daniel, di quarta scientifico. «Le camere a gas, ciò che ne rimane. Mi ha fatto capire come i tedeschi abbiano cercato di cancellare ogni traccia perché non volevano che sapessimo in che condizioni facevano vivere e morire gli ebrei. Si vergognavano. Poi lo stagno dove venivano gettate le ceneri e dove abbiamo recitato il Kaddish, perché gli ebrei non erano degni di avere una tomba né di essere sepolti». Daniel ha riflettuto anche sulla “temporaneità” di ciò che resta: «Rav Simantov ci ha spiegato che i reperti si deteriorano con il tempo e scompaiono. Questo viaggio rende noi stessi testimoni, un giorno lo saremo per i nostri figli o nipoti. Ricordare non è solo un dovere ma una responsabilità, perché non sappiamo cosa rimarrà di questo campo».
Daniel si porta dietro una domanda. «Perché? Perché proprio il popolo ebraico ha dovuto, e deve, subire ingiustizie così atroci e inumane? Questo “perché” non riguarda solo la Shoah. Me lo chiedo anche pensando alla schiavitù in Egitto, alle persecuzioni subite nel corso dei secoli, alle espulsioni dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Inghilterra, dalla Francia. E oggi, dopo il 7 ottobre, torno a chiedermi: com’è possibile che un bambino di pochi mesi venga privato della vita solo perché ebreo? Questo è un dolore che non si può spiegare. Non credo esista una risposta. Sono partito per la Polonia con questa domanda nel cuore, sapevo che sarei tornato senza risposta. Ma ora la porto con me in modo ancora più forte».