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Contro la violenza di genere: la battaglia di Giuseppe Delmonte, orfano di femminicidio

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«Ci sono momenti nella vita in cui non ti rendi conto che stai subendo violenza, in cui pensi che subire violenza sia una cosa normale. Io sono stato un bambino vittima di violenza e, da quando avevo 19 anni, orfano di femminicidio». Il racconto di Giuseppe Delmonte, fondatore e presidente dell’associazione Olga – Educare contro ogni forma di violenza, è la storia di una vita trascorsa nel terrore del padre, nel silenzio e nell’indifferenza della società.

Chi era Olga

Su iniziativa della docente Rosmaria Manna, Delmonte ha incontrato gli studenti del triennio superiore come parte dell’attività che l’associazione Olga svolge nelle scuole, nelle aziende e nelle istituzioni per promuovere un cambiamento culturale che contrasti il fenomeno della violenza. Olga è il nome di sua madre, vittima di femminicidio all’età di 52 anni per mano dell’ex marito, narcisista patologico poi condannato all’ergastolo.

L’incontro con il principe azzurro

«Voglio parlarvi di Olga come donna, madre, vittima di violenza di genere prima e di femminicidio poi» esordisce Delmonte. Olga nacque a Palermo nell’immediato dopoguerra e nel 1968, dopo il terremoto del Belice, si trasferì temporaneamente a Milano. Durante il viaggio in treno incontrò quello che diventerà suo marito e, purtroppo, il suo assassino. «Mia madre mi raccontava sempre che era il principe azzurro», dice Delmonte. «Bello, affascinante, intraprendente, la copriva di regali e di attenzioni. Era, diceva, l’uomo che non poteva non sposare».

Dr. Jeckill e Mr. Hyde

Il giorno dopo il matrimonio la maschera cadde, e la persona che agli occhi di tutti era brava e buona, il migliore amico che si potesse avere, si rivelò essere quello che fu per molti anni: un mostro. L’uomo isolò Olga dalla sua famiglia, le impedì di lavorare, di guidare, di fare amicizia con i vicini, persino di uscire a fare la spesa da sola. Le violenze iniziarono con il controllo psicologico e si trasformarono in aggressioni fisiche. «Per me bambino era normale che mio padre alzasse le mani su mia madre per un paio di ciabatte fuori posto o l’acqua della pasta troppo salata», ricorda Delmonte.

Un affare privato

Lui e i suoi fratelli crebbero in un ambiente di terrore. «Non potevamo ridere, giocare, ricevere regali. Se qualcuno ci regalava un giocattolo, lui lo buttava via. Dovevamo fare la doccia con l’acqua ghiacciata, perché era un suo modo di mantenere la sua supremazia su di noi. Non avevamo il telefono in casa perché non potessimo chiedere aiuto. Non potevamo neanche guardarlo negli occhi quando ci parlava». La violenza si consumava dentro le mura domestiche, nascosta agli occhi di un mondo che considerava il dramma familiare un affare privato. Il racconto è terribile. Delmonte, nei punti più dolorosi, si emoziona, ha gli occhi lucidi, si interrompe per prendere fiato. In sala il silenzio è assoluto, i ragazzi ascoltano attenti, partecipi.

Denunce senza seguito

«In quegli anni non si parlava di violenza domestica. La parola femminicidio non esisteva ed era inutile chiedere aiuto: tutte le volte che lui picchiava mia madre fino a mandarla al pronto soccorso, e sono state tante, partivano denunce per maltrattamenti che mai hanno avuto un seguito». Fino all’età di sei anni, dunque, il piccolo Giuseppe fu convinto che la vita familiare fosse così. Poi cominciò ad andare a scuola e, frequentando le case degli altri bambini, capì che qualcosa nella sua non andava.

Una nuova vita

Dopo 24 anni di matrimonio violento, Olga trovò il coraggio di fuggire con i figli. Delmonte aveva 14 anni e i suoi fratelli erano già maggiorenni. «Dopo l’ennesima scarica di botte, mia sorella prese la decisione e scappammo». Olga trovò lavoro e iniziò a costruire la sua nuova vita. «Cominciai a conoscere una nuova mamma: da succube del marito era diventata battagliera, una leonessa. Rimboccandosi le maniche, riuscì a costruire il focolare familiare che aveva sempre sognato e noi, finalmente, potevamo ridere con lei, andare a mangiare una pizza insieme. Era un traguardo enorme». Per cinque anni, Delmonte e i suoi fratelli vissero sereni, anche se la minaccia del padre era sempre presente.

Il femminicidio in piazza

L’uomo infatti non accettava la libertà di Olga e continuava a perseguitarla. «Telefonava di giorno e di notte, la seguiva ovunque, la minacciava di morte. Noi figli minimizzavamo, forse offuscati dalla voglia di riscatto. Decidemmo comunque che lei non sarebbe uscita di casa se non accompagnata da uno di noi tre». Olga continuò a temere il peggio fino al 26 luglio 1997. «Quella mattina andò da sola in posta. Lui la aspettava fuori. La uccise con sette colpi d’ascia in piazza, davanti a tutti».

Per lo Stato il caso era chiuso

Catturato l’assassino, per la giustizia il caso era chiuso. «Per lo Stato eravamo orfani invisibili. Nessuno si è chiesto se avevamo bisogno di aiuto psicologico o economico. Siamo stati ignorati da tutti». Per anni, Delmonte rimuove il dolore. «Decisi di non parlarne più perché non avevo la forza né i mezzi per gestire un dolore così devastante. Dicevo a tutti che i miei genitori erano morti in un incidente stradale».

Nessuno deve sentirsi solo

Solo dopo vent’anni di silenzio, grazie alla psicoterapia, Delmonte trovò la forza di parlare. Negli anni della terapia il padre gli scrisse chiedendo il suo perdono per avere la grazia dal presidente della Repubblica. Con l’appoggio dello psicologo, Delmonte decise di andare a vederlo in carcere dopo 22 anni. Il padre tentò di manipolarlo ancora una volta, ma lui reagì: «Si aspettava il tredicenne di un tempo, trovò un quarantenne fatto e finito. Per la prima volta, fu lui ad abbassare lo sguardo. E per la prima volta mi sentii libero. Questo dolore non mi abbandonerà mai, ma adesso riesco a parlarne per portare un messaggio a voi, ragazzi: se sapete di qualcuno che vive in una situazione di pericolo, parlate. Denunciate. Ci sono strumenti che prima non esistevano. Nessuno deve più sentirsi solo».

Gli orfani di femminicidio: un’emergenza invisibile

«Gli orfani di femminicidio sono definiti orfani speciali, perché hanno bisogni speciali cui bisogna dare risposta». spiega Delmonte. «Sono bambini cui va spiegato perché la mamma è morta e per mano di chi, bambini che vanno aiutati perché sicuramente crescendo avranno problemi». Problemi di insonnia, problemi di socializzazione, problemi alimentari. «L’orfano non può aspettare per essere preso in carico dal punto di vista psicologico ed economico. Oggi questi bambini vengono affidati ai parenti più prossimi, spesso nonni che si trovano a dover crescere un bambino dopo aver perso una figlia. Non possiamo far finta che questi caregiver non esistano e non dar loro un supporto psicologico».

Una legge inadeguata

L’Italia ha una sola legge dedicata agli orfani di femminicidio: la numero 4 del 2018. Il contributo previsto è di appena 300 euro al mese, una cifra ridicola per sostenere un bambino rimasto solo. «Lo Stato non sa nemmeno quanti sono questi orfani, perché non li ha mai censiti». A ottobre 2024 Delmonte è stato audito alla commissione bicamerale sul femminicidio e ha chiesto modifiche concrete alla normativa. «Ho fatto capire l’importanza della presa in carico immediata, al minuto zero, di questi bambini». Una delle sue richieste è la creazione di un tavolo tecnico permanente che garantisca un supporto continuo agli orfani.

Il paradosso del sistema penitenziario

Un aspetto che Delmonte sottolinea è il divario di trattamento tra gli assassini e le loro vittime. «Mio padre ha avuto uno psicologo la settimana dopo l’arresto e lo ha ancora gratis dopo 26 anni. Io me lo sono dovuto pagare dopo vent’anni di tasca mia». Lo stesso vale per lo studio e il lavoro: «A mio padre in carcere è stata data la possibilità di studiare, a me questa possibilità è stata tolta. A lui è stato dato un lavoro e uno stipendio, io il lavoro ho sempre dovuto trovarlo da solo. Mio padre ha avuto il diritto di chiedere la grazia al Presidente della Repubblica. Io non ho avuto nessun diritto».

L’indifferenza uccide

«Credo nel cambiamento culturale» continua Delmonte. «Solo voi giovani potete porre fine a questa violenza. Sarete i mariti, le mogli, i genitori di domani». L’associazione Olga lavora anche nelle scuole, formando studenti e insegnanti a riconoscere i segnali di una relazione violenta: «Se il vostro ragazzo o ragazza vi controlla il telefono, vi dice con chi potete uscire o come vestirvi, quello non è amore. È un pezzo di libertà che vi viene rubato ogni giorno». Il simbolo di questa battaglia è la scarpa rossa, icona della lotta contro la violenza sulle donne. Delmonte vi ha aggiunto un altro elemento: «Una scarpina da neonato, per ricordare che quelle donne spesso lasciano i figli. Gli orfani di femminicidio non hanno bisogno di elemosine, ma di vedersi restituire la serenità che è stata loro rubata». Per farlo, serve un impegno concreto delle istituzioni e una presa di coscienza collettiva: «Non possiamo più permetterci di girarci dall’altra parte. L’indifferenza uccide».

Claralinda Miano

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Alberto Jona Falco

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